lunedì 17 gennaio 2011

Vincitore "Venti racconti d'Italia"

Autore: Damiano Tarantino
Regione: Basilicata

"Forse in Basilicata"

Le scale mobili mi stanno portando al piano successivo. Le porte automatiche scattano allo schioccare delle mie dita. Ormai le ho in pugno. Il bus che mi ha portato all’aeroporto? Partito con ben tre minuti di ritardo, ha recuperato lungo il percorso e mi ha depositato al terminal delle partenze in perfetto orario per attendere l’inizio delle operazioni d’imbarco. Nel frattempo scorro la play-list dell’Ipod e butto un occhio assonnato a Internazionale. Le attese mi snervano, ho passato tutta la mattina ad attendere. Due minuti e mezzo il caffè, trentasette secondi l’ascensore, due minuti la metro. Meccanismi oliati a puntino, non c’è che dire, ma mi sembra sempre che ci mettano troppo a funzionare. Sono due anni che compio ogni giorno gli stessi gesti. Due anni in cui la mia vita è cambiata alla luce dei neon, al ruotare dei tornelli, alla lettura elettronica delle bande magnetiche di badge e biglietti di autobus. Due anni di fila e di fili invisibili sui quali i vagoni scorrono a ottanta all’ora in tunnel bui che portano in qualsiasi stazione, tranne che a casa mia, a Matera.

Periferia della Basilicata, avamposto lucano nella murgia pugliese, capoluogo di una provincia in cui la Magna Grecia confina con il deserto e i fiumi fanno la voce grossa due, al massimo tre volte l’anno, la mia è la città in cui se si parla bene di ferrovia ci si riferisce probabilmente a una qualità di ciliegie. La ferrovia con i treni che ci viaggiano su, non è dello stato e ha i binari a scartamento ridotto. Quando sentivo da mio padre l’espressione scartamento ridotto la associavo all’idea di trasporto ferroviario che c’è dalle mie parti, ridotto e, possibilmente, da scartare. Cristo forse non è più fermo ad Eboli, ma a Matera col treno proprio non ci vuole arrivare. Al massimo viene a nascere e a morire su set cinematografici, tra dirupi e case miracolosamente ammucchiate tra loro, vissute per secoli da migliaia di esseri umani, nati e vissuti da poveri cristi, senza speranza di redenzione.

Ma gli americani la guerra la vinsero loro e difesero la pace sociale con lo scudo crociato, così per i materani giunse l’ora dell’armistizio con la disperazione e di varcare le ultime frontiere dell’architettura popolare. Nelle case arrivò il sole e qualcuno iniziò a sentirsi un po’ più solo.

Ma la strada ferrata è rimasta ridotta e quella ordinaria interrotta in una galleria, a pochi chilometri dalla fine dei lavori. Bizzarro, no? Avverto maggiormente la nostalgia per la mia terra e il rammarico che non sia unita dai trasporti al resto d’Italia proprio in un tunnel, in metropolitana, in quei vagoni in cui la gente si rifugia per schizzare via il prima possibile dal sedile vicino a quello della vecchietta o dell’immigrato che gli siede accanto. Dopo i primi mesi mi lasciai andare anch’io a questa forza centrifuga. Mi otturai le orecchie con la musica e mi foderai gli occhi con la free-press, come tutti. Mi preservo dai contatti umani e sono intollerante ad ogni tempo d’attesa superiore ai due minuti e mezzo.

La sera i ricordi di quegli assurdi viaggi lunghi sessanta chilometri e decine di minuti di troppo mi scorrono sempre davanti riflesse nei finestrini della tube. Matera – Bari, Bari – Matera. In mezzo una quindicina tra fermate e soste. Alberi di ulivo in stazioni chiamate Mellitto o Binetto, in attesa della coincidenza. La fermata di Altamura. Il capostazione sale in carrozza e grida “Per Matera si cambiaaaaaaa!!”. La frase suona beffarda come uno slogan elettorale. Mi carico la borsa piena di boccacci sulla spalla destra e mi sposto su un altro trenino che mi conduce a destinazione. Ma prima passo un anno nell’antro della maga Circe, che si dice viva nella stazione di Pescariello.

Tornerò a casa un giorno su quel macinino. Rivedrò monacelli nascosti tra le pieghe di muretti a secco, murales, campetti, campanili, campagne, chicchi di grandine o d’uva, passaggi a livello, binari morti da un secolo e masserie che galleggiano sulla nebbia. Condividerò pari opportunità mancate con uomini e donne. Navigherò su una zattera montata su rotaie e scamperò al naufragio, nutrendomi del pane della lentezza.

Mi imbatterò in vecchietti carichi di buste che tornano dal mercato di Toritto o di Palo del Colle. Mi invischierò per ore con qualcuno o qualcuna in inutili, necessari, discorsi di calcio o d’amour, ma non ci sarà tempo: d’un tratto ecco la Basilicata, è il momento di lasciare la carovana. Ecco il treno a vapore - dai, ora NON esagerare! – che sbuffa sulla piana di Ciccolocane… ma di cani non ce n’è, lì non c’è nulla, solo un tempo il vecchio confine con la scritta Hic est Lucania, Qui è Lucania. E’ un posto surreale, nato dall’analfabetismo fantasioso dei contadini. Lì, dove la murgia si spacca in fosse enormi, i materani scavarono la loro città per secoli, isolandola dalla Puglia con la gravina e nascondendola ai lucani sotto il crinale delle prime colline. Eccomi lì, a scambiare le ultime battute, a rintuzzare polemiche anti-juventine, a riempire di primavera la mattina con fragili promesse fatte di sguardi fugaci.

Ero lì, ero lì…

Eccomi qui, in fila per l’imbarco con la ventiquattrore, asettico e asociale. “Si siede avanti o in fondo?”, fa l’hostess. Appunto. Allaccio le cinture, sono pronto al decollo, l’aereo si accende, inizia il rullaggio. Penso che in genere accade il contrario, ma sono già in salita, con la testa schiacciata sul sedile. L’aereo trema come una motosega mentre prende le nuvole a colpi d’ala. Dall’altra parte del cielo le tenebre sanguinano rossastre e a tutti noi sembra di sciare su un’ondulata coltre di grigio e di blu.


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